La ripartenza dopo la pandemia ha fatto emergere un mondo del lavoro diverso, caratterizzato un po’ ovunque nelle economie occidentali dal fenomeno definito delle “grandi dimissioni”.
La ragione di fondo si trova nel mutato rapporto delle persone con il lavoro, vissuto in maniera diversa durante i mesi caratterizzati dal Covid-19 in cui si sono allentate le dinamiche tipiche della carriera o del luogo di lavoro e si è presa confidenza con una nuova dimensione, in cui prevale la ricerca della gratificazione personale per quello che si fa.
Si ricercano una dimensione di appagamento, una quotidianità non dominata dal lavoro, se questo non corrisponde ai propri interessi, l’urgenza di non accontentarsi, la voglia di vivere le proprie passioni e relazioni dirette più sincere e selettive. Tutto questo determina in molti casi un distacco dall’ambiente del lavoro finora vissuto, percepito come estraneo e, in qualche modo, artefatto.
Del fenomeno della Great Resignation, le dimissioni di massa, avevamo parlato quasi un anno fa in questo articolo riportando un’analisi del network Assurex Global sul mercato statunitense, che prima di quello europeo ha cominciato a vivere questa tendenza.
Il fenomeno è forte anche in Italia: secondo l’ultima ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, nell’ultimo anno il tasso di turnover è aumentato per il 73% delle aziende e il 45% degli occupati dichiara di aver cambiato lavoro nell’ultimo anno o di avere intenzione di farlo da qui a 18 mesi. Questi dati incidono di più tra i giovani (18-30 anni), per determinati settori (ICT, Servizi e Finance) e per alcuni profili (professionalità digitali.
Chi cambia lavoro lo fa principalmente per cercare benefici economici (46%), opportunità di carriera (35%), per una maggiore salute fisica o mentale (24%) o per inseguire le proprie passioni personali (18%) o una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro (18%).
La capacità di attrarre talenti era un tema cruciale già prima del Covid, ma oggi è diventato ancora più difficile per il 44% delle aziende. A preoccupare sono anche le difficoltà in termini di capacità di motivare, coinvolgere e trattenere le persone già presenti: analizzando le tre dimensioni del benessere lavorativo fisica, sociale e psicologica, solo il 9% degli occupati dichiara di stare bene in tutte e tre. L’aspetto più critico è quello psicologico: 4 persone su 10 hanno avuto almeno un’assenza nell’ultimo anno per malessere emotivo. Preoccupazioni che si riflettono anche sullo stato fisico, con difficoltà a riposare bene e/o insonnia (55%). Questo malessere, però, sembra quasi totalmente sconosciuto alle aziende, che solo nel 5% dei casi lo considerano un aspetto problematico. A questo si accompagna una diminuzione del livello di engagement: rispetto al 2021 i lavoratori pienamente "ingaggiati" passano da un già basso 20% a un preoccupante 14%. E solo il 17% delle persone si sente incluso e valorizzato all'interno dell'organizzazione.
La soluzione per migliorare benessere ed engagement, secondo Martina Mauri, Direttrice dell’Osservatorio HR Innovation Practice, passa per “l’aumento della flessibilità, intesa soprattutto come responsabilizzazione e autonomia della persona nella gestione delle proprie attività lavorative. Dall’altra parte è opportuno creare un ambiente aperto e inclusivo, capace di valorizzare al meglio le competenze dei lavoratori, ma anche i loro interessi e passioni personali, a cui dare piena cittadinanza all’interno dei confini organizzativi”.