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Rischi e opportunità della delocalizzazione virtuale

Dall’inizio della pandemia, il lavoro da remoto si è imposto come la nuova normalità. Nata come necessità operativa per garantire la continuità delle attività nonostante il distanziamento sociale, questa modalità ha dato vita a una trasformazione i cui potenziali risvolti vanno ben oltre il contesto organizzativo delle aziende.


Secondo uno studio(1) della Commissione Europea il 37% degli impieghi attualmente censiti potrebbe essere affidato a lavoratori in remoto. In media, i settori con il più alto potenziale di delocalizzazione tendono ad essere quelli con un maggior costo del lavoro per addetto: le attività finanziarie e assicurative, con il 92% delle attività remotizzabili, sono al primo posto, seguite dal comparto dell’informazione e comunicazione (80%) e dagli studi professionali (commercialisti, consulenti, avvocati) con il 70%. Si tratta di una stima potenziale, che non tiene conto, ad esempio, del fatto che sul lungo periodo alcune attività potrebbero perdere di qualità se svolte esclusivamente in remoto, e questo potrebbe spingere le aziende alla scelta di non delocalizzarle. Tuttavia, è verosimile immaginare che nei prossimi anni un numero crescente di lavori verrà svolto da remoto, e non solo perché è possibile farlo.


Quando la crisi sarà terminata, questo cambiamento culturale potrebbe infatti spingere le aziende delle economie avanzate ad assumere talenti in modalità smart working nei paesi emergenti, riducendo così il costo del lavoro. Negli ultimi decenni di globalizzazione, la delocalizzazione dell'attività industriale e l'estensione delle catene di approvvigionamento sono state uno dei principali motori di crescita della produttività. In anni recenti, tuttavia, i guadagni derivanti dal decentramento dell'attività industriale sembrano essere diminuiti. Per mantenere un vantaggio competitivo, dunque, le imprese cercheranno altre soluzioni.


Un'opzione possibile sarà quella di intensificare la delocalizzazione di servizi ed attività ad alta intensità di conoscenza verso paesi a basso costo di manodopera. Questa tendenza non è nuova: paesi come India e Filippine sono già da anni centri di riferimento per servizi IT, di informazione e comunicazione. Quello che è cambiato nell’ultimo anno e mezzo sono l’estensione e la capillarità del lavoro da remoto: circa il 40% della forza lavoro complessiva europea ha svolto forme di smart working regolare nel corso del 2020, facendo tra l’altro registrare una produttività in molti casi più alta rispetto al lavoro in presenza. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) stima(2) che il numero totale di persone impiegate in remoto nelle economie a reddito elevato si aggirerebbe intorno ai 160 milioni, mentre si avvicinerebbe ai 330 milioni nelle economie a basso e medio reddito.


Coface, che ha dedicato al tema una recente pubblicazione(3), prendendo in esame le aziende di Regno Unito, Germania e Francia ha calcolato che se un solo smart worker su quattro fosse virtualmente trasferito in paesi emergenti (Russia, Polonia, Romania, Ucraina, Turchia, Marocco, Algeria o Tunisia) e pagato con gli attuali salari locali, il costo complessivo del lavoro si ridurrebbe del 6-9%. Questo perché attualmente, tenendo conto di compensi monetari e non (benefit), formazione professionale, imposte sul lavoro, sicurezza sociale e spese assistenziali, le differenze di costo del  lavoro  tra  questi  due  gruppi  sono  considerevoli, con una media di 37,4 dollari all’ora nei paesi avanzati, rispetto a 7,3 dollari in quelli emergenti.


Si tratta ovviamente di un esercizio teorico, che non tiene conto dei lunghi tempi richiesti da questo tipo di transizioni, delle leggi sul lavoro che potrebbero intervenire, dell’adeguamento graduale dei salari nei paesi emergenti. Tuttavia, la delocalizzazione virtuale su larga scala è un processo avviato, pur rappresentando per le economie ad alto reddito una scelta non esente da rischi.  
Come avvenuto in passato per il decentramento industriale, il nuovo trend comporterà una trasformazione nel tessuto economico e sociale dei paesi avanzati. La diminuzione dei posti di lavoro a disposizione potrebbe avere conseguenze sulla stabilità sociale e aumentare i fenomeni di polarizzazione politica. Nonostante la carenza di manodopera per alcune competenze particolarmente richieste, Coface riporta come già oggi in questi paesi si registri una tendenza alla diminuzione dei rendimenti dell’istruzione superiore, con l’offerta di laureati che aumenta più rapidamente della domanda di lavoro qualificato.      


Al contrario, per le economie emergenti la delocalizzazione virtuale rappresenta una possibilità di sviluppo. Allo scopo di individuare i paesi che possono diventare potenziali hub, Coface ha realizzato un indicatore basato su quattro criteri: capitale umano, competitività del costo del lavoro, infrastrutture digitali e contesto imprenditoriale. Combinando questi fattori emerge che paesi come India, Indonesia e Brasile dispongono di un ampio numero di potenziali lavoratori a distanza e costi di manodopera molto competitivi. Altri, come la Polonia, offrono clima aziendale molto favorevole e solida infrastruttura digitale. Infine, mentre la Cina e la Russia sarebbero, in teoria, destinazioni virtuali ideali per la delocalizzazione, le tensioni geopolitiche e i crescenti problemi di sicurezza informatica con i paesi occidentali rappresentano un ostacolo significativo.


Nel grafico seguente Coface riporta in dettaglio il valore registrato per i quattro fattori in relazione a quindici paesi, classificandoli in base ad un punteggio di sintesi.

Esempio di interpretazione: la Cina è il Paese con il maggior numero di potenziali migranti virtuali; il numero
di potenziali migranti virtuali dell’India è il 62% di quello della Cina. I salari medi in Indonesia sono solo il 26% (100-74) di quelli in Polonia, il paese con i salari più alti del campione. I paesi evidenziati in rosso si comportano bene secondo l’indicatore Coface, ma potrebbero essere evitati dagli investitori per problemi geostrategici e/o di sicurezza informatica.

 

NOTE:


1. Eurofound: “Living, working and COVID-19” (COVID-19 series, 2020)
2. International Labor Organization: “Working from Home: Estimating the worldwide potential” (ILO Policy Brief, 2020)
3. https://www.coface.it/News-Pubblicazioni/Tutte-le-pubblicazioni-di-Coface-Coface/Focus-rischi-e-opportunita-della-delocalizzazione-virtuale